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LA REDAZIONE | 12 dicembre 2014 | 09.47

Vogliamo il diritto alla pace. Per tutti.

La pace rientra fra i diritti umani fondamentali? Le Nazioni Unite lo possono sancire? Se ne discute a Padova, in un convegno dal titolo “Abbiamo diritto alla pace”.

 

 

 

No assoluto alla "guerra facile". No anche alla "pace negativa". Sì al diritto alla pace. È il tema di cui si discuterà a Padova il 10 dicembre, Giornata internazionale dei diritti umani. E da discutere ce n'è, perché la strada per ottenere il riconoscimento affinché la pace (della persona e dei popoli) sia un diritto umano fondamentale, è ancora in salita.

«Non abbiamo ancora raggiunto il risultato sperato», dice Flavio Lotti, direttore del Coordinamento nazionale degli Enti locali per la pace e i diritti umani promotore dell'iniziativa, insieme al Centro per i Diritti Umani dell'Università di Padova e alla Cattedra Unesco Diritti Umani, Democrazia e Pace, «perché i governi che si oppongono, in primis Stati Uniti e Regno Unito, lo fanno in maniera determinata. Per loro la pace non è un diritto, bensì conseguenza di altre cose. Vogliono salvaguardare la loro volontà di fare la guerra. Se la pace fosse riconosciuta come diritto umano fondamentale, lo Stato che lo violasse verrebbe portato davanti al tribunale dell'Aja».

In questa situazione di stallo, assumono grande importanza le iniziative di sensibilizzazione, come il convegno, che si terrà all'Università di Padova (palazzo del Bo, Aula Magna), mercoledì 10 dicembre, dalle 10.30 alle 13, in occasione della Giornata internazionale dei diritti umani 2014, intitolata proprio "Abbiamo diritto alla pace". Dopo i saluti di Giuseppe Zaccaria (Magnifico Rettore università di Padova), Marco Mascia (Direttore Centro di Ateneo per i Diritti Umani), Maria Luisa Coppola (assessore ai Diritti Umani - Regione Veneto), Alberto Danieli (preside liceo Duca D'Aosta di Padova), interverranno Antonio Papisca (Cattedra Unesco Diritti Umani, Democrazia e Pace - Università di Padova), che presenterà la proposta indirizzata al Consiglio Diritti Umani delle Nazioni Unite, padre Egidio Canil, delegato del Sacro Convento di San Francesco, ad Assisi, e molti altri rappresentanti di enti locali, associazioni e singoli impegnati sul tema.

300 ORDINI DEL GIORNO APPROVATI
DA ALTRETTANTI COMUNI ITALIANI


«Bisogna far sapere alla gente ciò che sta succedendo all'Onu», continua Lotti, «per creare un movimento che faccia pressione dal basso. Molto si sta muovendo, basti pensare ai 300 ordini del giorno approvati da altrettanti comuni italiani, o alle 100 mila persone che lo scorso 19 ottobre hanno partecipato alla marcia per la pace Perugia-Assisi. Tutta questa gente che ha raccolto il nostro appello e che, in tempo di grande crisi economica e di forte preoccupazione per il futuro, decide di mettersi in viaggio per una camminata, non è una cosa banale, anche se - sappiamo - c'è anche chi tende a minimizzare, come se si trattasse di una passeggiata domenicale, a cavallo tra il desiderio di fare un po' di footing e il mettersi a posto la coscienza».

Quindi, una questione non solo morale. «La procedura di riconoscimento giuridico è un fatto estremamente concreto», aggiunge Lotti. «La risoluzione, una volta scritta dall'apposita commissione, verrebbe discussa e approvata dall'Assemblea generale dell'Onu che riconoscerebbe la pace come diritto umano fondamentale e, di conseguenza, tutta una serie di obblighi per gli Stati, tesi a dare piena attuazione al diritto alla pace. Tutti sono d'accordo nel ritenere che, quando non c'è la pace, nessuno dei diritti umani fondamentali può essere realizzato. È dovere e responsabilità della comunità internazionale prevenire i massacri. Perciò, pace non come opzione morale, bensì obiettivo primario per poter assicurare il rispetto di tutti gli altri diritti».

LA PACE "CONVIENE" A TUTTI

E poi la pace "conviene" a tutti. «Guardiamo, per esempio, alla questione dei rifugiati», spiega il professor Marco Mascia. «Tutti protestano, ma nessuno dice che, se si facesse un grosso lavoro a monte per prevenire, forse le cose andrebbero in modo diverso. Se riconoscessimo il diritto alla pace, magari le persone non si sposterebbero, perché starebbero bene a casa propria. Queste migrazioni ci sono perché in troppi Paesi ci sono guerra e povertà. Come Ateneo sosteniamo il diritto alla pace perché vogliamo partecipare alla costruzione di un ordine mondiale più giusto, pacifico, democratico, dove operi un efficace governo dell'economia, secondo i dettami della giustizia sociale».

Purtroppo, però, ci sono ancora parecchie resistenze. «Certo, perché molti Stati vogliono conservare il monopolio del diritto alla pace quale attributo di sovranità, costitutivamente intrecciato con il diritto di fare la guerra, garantendosi, come la storia insegna, che l'esercizio del primo sia subordinato alle esigenze di realpolitik del secondo. La loro concezione di pace è di pace negativa, ovvero parentesi tra una guerra e l'altra, da cui discende il perverso imperativo "se vuoi la pace prepara la guerra". Invece, se si riconosce il diritto alla pace, scattano gli obblighi giuridici in capo agli Stati. Dovranno disarmare, far funzionare il sistema di sicurezza collettiva delle Nazioni Unite, garantire un sistema di solidarietà internazionale per sconfiggere la povertà, che è la base dalla quale si generano instabilità e conflitto».

ORA TOCCA AL GOVERNO ITALIANO
PRENDERE POSIZIONE A FAVORE DEL DIRITTO ALLA PACE


L'Italia da che parte sta? «In Italia il diritto alla pace come diritto umano è riconosciuto in migliaia di statuti comunali e regionali. Il legislatore locale italiano ha anticipato il legislatore internazionale; per questo l'Italia deve farsi carico di questa responsabilità e coinvolgere gli enti di governo territoriali degli altri Paesi europei. D'altra parte, non dimentichiamo che l'Unione Europea ha ottenuto il Nobel per la Pace nel 2012. Ora tocca al governo italiano prendere posizione a favore del diritto alla pace. In sede di Consiglio Europeo, ha già iniziato ad astenersi su questo tema, ma dall'astensione bisognerebbe che passasse all'approvazione, sostenesse l'iniziativa del riconoscimento e la facesse propria».

«NON C'È PIÙ TEMPO. IL NOSTRO, O SARÀ
UN FUTURO DI PACE, O NON CI SARÀ FUTURO»


Lotti, ma davvero bastano gli strumenti della politica e della diplomazia? «Oggi c'è una crisi generale di tutti gli strumenti: della guerra, che non ha risolto nessuno dei problemi che voleva risolvere; della politica, che avrebbe dovuto prevenire le guerre; della diplomazia, che non riesce a risolvere nessuno dei problemi aperti nel mondo, penso alla Siria, all'Ucraina, al conflitto israelo-palestinese. I fallimenti sono una lista lunghissima. Viviamo in un'epoca in cui dobbiamo riconsiderare tutti questi strumenti a partire proprio dalla guerra, la quale toglie qualsiasi altra opzione, perché è basata sull'annientamento non sulla ricollocazione in un contesto comune. Allora, bastano gli strumenti della politica e della diplomazia? Non bastano. In alcuni casi è necessario anche l'uso della forza, ma questo dev'essere gestito e regolamentato, non ci può essere libero arbitrio, né "fai da te". Quando c'è bisogno di un intervento in cui è prevedibile l'uso della forza, è necessario che intervengano le Nazioni Unite». Purché siano in condizione di farlo. «Certo. Negli ultimi 25 anni, sono state bistrattate progressivamente; sono stati sottratti fondi e capacità di lavoro. E i responsabili sono ancora una volta i governi. Quanti problemi noti da moltissimi anni la politica non ha saputo o voluto affrontare? Ma ora non c'è più tempo. Il nostro, o sarà un futuro di pace, o non ci sarà futuro», conclude Lotti.

Fonte: www.famigliacristiana.it
9 Dicembre 2014